mercoledì 9 ottobre 2019

La "natività" dolciaria italiana, nel Rinascimento.

Tratto da NelFuturo.com (nell'immagine: Jean Baptiste Simeon Chardin - La Brioche - 1763)
L'uso dei dolci fino all'inizio del Cinquecento era riservato quasi esclusivamente ai ricchi e comparivano sulla tavola all'inizio, durante e alla fine dei pranzi, per lo più seguiti da una malvasia ad alta gradazione.
Pensate che i dolci erano quelli che gli Arabi confezionavano ed esportavano fin dal XIII secolo, in Spagna, in Grecia, in Sicilia, in Campania, in Liguria, in Piemonte e altrove. Erano il marzapane, i dolci fatti con pasta di mandorle, sfogliatine farcite col miele, che ancora oggi compaiono nelle pasticcerie sia turche che greche. Tagliolini fritti e mielati, torrone tenero, canditi, confetture e marmellate di frutta, biscotti e canestrelli. Questi dolci erano appannaggio delle bocche dei signori. Anche i poveri riuscivano a cucinare dei dolciumi, semplici ma altrettanto buoni, tramandatici da generazioni. Certo, occhieggiavano e non erano la consuetudine.
Nel Rinascimento il pasticcere era colui che preparava i pasticci, i paté, e si occupava di dolci solo se rimaneva del tempo, al margine del suo lavoro. Questo fino alla fine del secolo. Poi nella cucina di un illustre cuoco, Bartolomeo Scappi, autore di un trattato sull'arte di cucinare, si cominciò a preparare cuochi addetti agli impasti: alle paste. Queste paste erano per preparare pasticci salati e impasti dolci. Ecco perché "paste" si chiamano ancora oggi i dolci confezionati nelle pasticcerie. Esistevano dunque due arti dolciarie nel Rinascimento, quella di chi produceva le cialde, e l'arte dei confettieri, dolciumi mediterranei e arabi. Furono gli Arabi ad inventare prodotti che si potevano facilmente trasportare e potevano durare nel tempo, proprio facendo largo uso di zucchero, che oltre a dolcificare, conservava.
Tomaso Garzoni, nel suo libro Piazza universale di tutte le professioni del mondo, del 1585, dedica ampio spazio ai cuochi e cita i produttori di dolci da forno, dei cialdai... I cuochi scrittori erano persone al servizio di signori, nobili, cardinali. Lavoravano nelle loro cucine e raccoglievano tutti i segreti: per questo il loro sapere risulta essere attendibile. Sappiamo che esistevano anche cuochi che rivendevano cibi cotti nelle loro botteghe o nelle taverne, non solo nelle case nobiliari e ricche. Così potevano arrivare anche sulle tavole dei meno abbienti. Il Natale, la Quaresima, la Pasqua, il battesimo, la festa del santo Patrono ed il carnevale sono avvenimenti che accadono durante l'anno e, per tradizione, vengono festeggiati con un dolce, preparato persino dalle monache, che giustifica un veniale peccato di gola.
Nei menù rinascimentali si rintracciano anche interessanti annotazioni su come si doveva preparare la tavola. Doveva essere ornata con rami, foglie e fiori, sulla tovaglia si spargevano mandorle, semi di finocchio e confetti. Sì, i confetti che ancora commemorano le nostre feste.
Insomma, poco burro, poco zucchero, farina e qualche mandorla, ed ecco pronti i democratici amaretti. Tutti ingredienti non costosi, considerando che lo zucchero si poteva sostituire con il miele. Alimento ancor più democratico perché chiunque lo poteva produrre, sfruttando gli alberi o i prati, a quei tempi ancora così profumati e abbondanti.

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