mercoledì 9 ottobre 2019

Nell’arte contemporanea la regina è l’Idea

Tratto dal NelFuturo.com

Si parla tanto di tecnica. Io parlerei di idee.
Fino ai primi anni del Novecento la tecnica era fondamentale. La tecnica era il “mestiere”. Quando però, passati i primi anni di quel secolo, ci troviamo in un museo, incollati davanti a un Manzoni a caso,  Merda d’artista, la tecnica va a farsi benedire e il pensiero rincorre l’idea della presa in giro. 
Oggi, quello che conta, nell’arte, come nel cinema piuttosto che nella pubblicità o nella moda, non è saper fare, avere la tecnica, l’importante è saper pensare, avere l’idea giusta prima degli altri e nel momento giusto. Esistono persone che tecnicamente sanno eseguire in modo ineguagliabile quello che altri pensano ma non sanno realizzare. Le idee, quando sono nuove e vitali, sono più scomode di un golfino di cachemere, ma sono anche quelle che fanno sì che una società non invecchi, ma perpetui una crescita rigogliosa.

Prendiamo, per esempio, il Taglio sulla tela di Lucio Fontana. Cos’è ? Un gesto della mano, una trovata bislacca e banale, o un capolavoro d’arte? Visti i risultati sicuramente un capolavoro. Perché l’opera d’arte non è solo meticolosità e ricerca della perfezione tecnica, ma è anche azione, follia, visione, gioco, scherzo, tutti elementi che come le azioni faticose e difficili, spesso noiose, fanno parte della vita. Bisogna uscire dallo stereotipo per cui l’arte è solo ciò che rappresenta fedelmente la realtà, o che comunque è accademica e perfetta. L’arte contemporanea deve recare con sé l’idea, quell’idea che diventa strumento e ci aiuta a riflettere sul nostro presente, e come stimolo a comprendere che solo l’eseguire bene e secondo i canoni del passato un’opera, non bastano ad accompagnarci ad una riflessione sul nostro futuro.

Siamo in una società che considera arte programmi televisivi che hanno come ospiti persone con un quoziente intellettivo inferiore a quello di una lumaca, foto che trasformano una coscia di pollo con contorno di patate in un capolavoro di alta cucina; come allora dire che il Taglio di Fontana non sia arte? L’arte fin dall’antichità, ci spinge a pensare, a meditare, sulla nostra contemporaneità e sulla nostra società, ed è facile rimanere un po’ perplessi davanti a quadri che non si riesce a decifrare. La reazione è quella di essere irritati. Bisogna andare oltre, immaginare, sognare. C’è un pittore, Robert Ryman, che dipinge tele con campiture solo bianche, il vuoto, il nulla. E’ arte che si basa sull’idea, non sulla tecnica. E’ questo il passo in più che dobbiamo fare. Nel passato era fondamentale la tecnica, nelle botteghe gli allievi seguivano e imitavano il maestro. Oggi questo non è più possibile, non si sarebbe più dei veri artisti se si facessero delle copie. Questo artista ha dipinto il vuoto, si potrebbe anche dipingere, per esempio un altro concetto astratto, la tristezza. Una volta questo era impensabile, nessuno l’ha mai dipinta. Ora lo si può fare. Potreste obiettare che un quadro tutto bianco non può essere un’opera d’arte. Certo, può sembrare così, mio figlio mi direbbe che sarebbe in grado di farlo anche lui. E qui si inciampa: ma a voi, è per caso venuto in mente di realizzarlo ? Avete mai pensato che quando non pensate a nulla e fissate il vuoto, in fondo, fissate uno spazio “bianco” ? Davanti alle sue tele ci si sente liberi di poter immaginare tutto quello che vogliamo, e il compito principale dell’arte dovrebbe essere quello di farci sentire liberi. Quindi concludo che non tutti siamo in grado di realizzare quello che a prima vista ci appare banale e senza significato. Ma l’arte con tutti i capolavori che ci regala oggi, ieri, e nel futuro, è presente proprio per ricordarci che a noi neppure è venuto in mente di realizzarla. Certo, la tela bianca di Ryman o il taglio di Fontana ci può irritare o sembrare una presa in giro, ma non è così. Vi faccio un esempio, immaginate di salire su di una corriera affollata con un posto libero, vuoto… bianco. Pensateci bene: quel bianco che sembrava banale e stupido diventa importante. Si è trascesa la realtà, ha provocato delle emozioni, ecco perché chi riesce in questo assurge all’Olimpo dei grandi artisti.

Un museo immaginato e personale

Tratto dal NelFuturo.com

Tempo fa lessi un romanzo di Orhan Pamuk, Il museo dell’ Innocenza. Rimasi incantata, e ancor più incantata dopo aver constatato che il Museo venne fondato veramente, ad Istambul.
Ci sono stata, e fu una rivelazione e una conferma allo stesso tempo. Uno spazio da esplorare con tutti i nostri sensi.
Ho cominciato così a fantasticare sulla casa, sulle nostre case come musei.
Luoghi dove non esistono cartelli con la scritta “Si prega di non toccare”. Ho pensato a tutti gli oggetti che possediamo, alcuni con valenza emotiva, altri storica, altri ancora affettiva. Legati ad un ricordo o a una storia che tramanda il dove, il chi, il quando.
Momenti che si possiedono e che mi piace trasformare in ricordi tridimensionali di emozioni che abbiamo vissuto, per poterli toccare ed essere a disposizione non solo nostra, ma anche di chi ci sta accanto e ci viene a trovare. Costruiremo così un ambiente che ameremo e sentiremo nostro, che condivideremo e che non sarà una copia di figure viste su riviste di arredamento o in anonimi negozi di arredamento.
In questo modo, si può dare ai nostri spazi la possibilità di evolvere nel divenire: la nostra casa vuole essere una linea del tempo che passa e che segue le tracce della vita, di chi abbiamo amato, degli amici che abbiamo conosciuto e dei luoghi che abbiamo visitato.
Alcuni ricordi sono nascosti nelle pieghe delle stoffe che tanto amo collezionare: ritagli, scampoli, pezze. Alcune conservate per la loro bellezza, altre perchè catturano un ricordo, altre ancora perchè le ho immortalate con i colori ad olio.
Un altro amore sono i tesori che il mare sa regalare: conchiglie, legni, ricci… mi ricordano momenti felici e risa di bambini, i miei.
La mamma mi chiama l’accumulatrice, sembra una parola dall’accezione negativa. E allora io preferisco usare quella di uccello giardiniere. E’ un uccello nativo dell’Australia, capace di fare cose incredibili per decorare il suo nido.
Come questo pennuto, anch’io mi fisso sugli oggetti e con determinazione do il via ad una ricerca, ad un traguardo a cui mirare, volteggiando nei mercatini di anticaglie.
Collezionare cose ci lega a momenti di felicità, ma anche di dolore.
Inesauribili collezioni e assortimenti di piccole preziose cose. A poco a poco ecco che creeremo un nostro museo immaginato e personale, di carte, fotografie, stoffe, argenti, ceramiche, disegni, nastri, bottoni, sassi, conchiglie, fiori seccati, matite, buste, cartoline, scatole di latta, perline e amuleti. Conserviamo un passato, che è essenziale per affrontare il futuro.
Un museo di piccole grandi cose che si amano e che abbiamo amato.

Realtà concreta e realtà astratta sono regolate dal codice segreto dei colori.

Tratto dal NelFuturo.com

Gustav Klimt – Casa di campagna sull'Attersee – 1914 - (particolare)
Diventiamo rossi dalla vergogna, siamo al verde, sbianchiamo dalla paura, neri di rabbia, dalla paura blu.
I colori influenzano profondamente i nostri atteggiamenti, il nostro ambiente e il nostro immaginario.
Hanno una storia che cambia a seconda dei secoli che attraversano. La religione, per prima, ha imposto la sua regola sull’uso simbolico dei colori, la scienza e la filosofia hanno dibattuto, la politica li usa.
Ma quanti sono i colori ? Il primo è il blu, cielo e mare, amato da tutti, segue il rosso, sangue e fuoco, poi il bianco, virginale e angelico.; il giallo, il verde che tradisce; infine il nero, austero e umile, elegante e arrogante. Seguono tutti gli altri cantori, mezze tinte, come il rosa, il marrone, il grigio, l’arancio…
Anticamente si raccontava ai bambini che ai piedi dell’arcobaleno era nascosto un tesoro. Io ci ho sempre creduto, lì, in quel magico punto si fondono i primari e i secondari, e con gli occhi che sanno vedere,  si colgono infinite sfumature e tonalità, frutto di alchemiche combinazioni, che non smettiamo mai di inventare.
I colori sono una categoria dello spirito, e insieme simboli. Prova ne è il fatto che vengono usati e abusati per comunicare, conservano segreti che non ci rivelano e che ci impongono. Dietro i sei colori di base (viola, blu, verde, giallo, arancio e rosso), un corteo infinito di nuance, che esistono perché le vediamo. A scuola ci hanno insegnato che i colori dell’arcobaleno sono sette, sette raggi colorati. In realtà sono sei, ma siccome al tempo di Newton le convenzioni sociali, religiose e scientifiche esigevano sistemi di sette o di dodici elementi, lui aggiunse l’indaco, in pratica un altro blu. Con il Romanticismo si sono inventati tanti altri termini per qualificare i colori, perché l’Amore, che tutto regge, ha avuto bisogno di incarnare in nuovi colori sentimenti, emozioni e simboli, che l’austerità dei sei colori di base e la religione  non avevano fino ad allora permesso.
Poi, piano piano, siamo diventati meno sensibili al colore. Come tutte le cose difficili da reperire era prezioso, ora la chimica lo ha banalizzato. Noi bambini eravamo incantati quando a Natale ricevevamo la scatola di latta con le classiche dodici matite colorate. I bambini oggi ricevono scatole da quaranta colori e sono molto meno curiosi e creativi di quanto lo fossimo noi con molto meno. Anche i pittori li banalizzano: usano i colori come escono dal tubetto, senza sperimentare. Più facile, meno impegnativo. Poco romantico, aggiungo io. Il culmine poi si raggiunge quando si usano i colori per fare test psicologici. Come dire che, se scelgo il nero, mi vedo qualificare un temperamento lugubre. Che desolazione !
Lo vediamo anche nell’urbanistica, l’uso di troppi colori, perché la filosofia deve essere sempre quella del tutto e troppo,  che alla fine, paradosso, uccidono il colore.  Si pensi a Piazza Cadorna a Milano. Un’orgia di tinte accese che aggrediscono, disorientano i poveri cittadini che  vi abitano o lavorano.
Insomma, i colori sono carichi di antichi simboli ai quali ci troviamo inconsciamente sottomessi. Potremmo provare a dimenticarci della loro valenza simbolica e imparare ad usarli con un po’ più di innocenza fanciullesca  e sensibilità . Come diceva G.Klimt il colore ci possiede, ma non lasciamoci tiranneggiare.
Ecco il mio studio

Tentativo di tessere la stoffa d’artista

Tratto dal NelFuturo.com

Mi è sempre piaciuta l’Arte. Da bambina passavo ore ad osservare le illustrazioni dei libri. I colori e i disegni mi portavano a creare nella mente, ancora ingenua ed infantile, mille esclamazioni, mille interiezioni, nessi di ombre e di luci, e creazioni che ancora non ero in grado di trasmettere alla mia mano. Stavo ore e ore, perché?  Quale strada o quale segreto andavo cercando? Lo scoprii diversi anni dopo, e quando scrivo diversi, intendo tanti.
La vita, me lo ha rivelato il momento giusto : nella sofferenza, nel tormento, nella insoddisfazione, nel bisogno di travalicare la quotidianità ed andare oltre. Parlo di una sofferenza non esibita, una sottile sofferenza, quel “Male di vivere che spesso ho incontrato”, crescendo.
Ero una ragazza che camminava in un mondo di colori e forme chiari e tangibili. Scoprii invece che, ad un tratto, tutto ciò che mi ruotava intorno stava diventando misterioso, qualcosa si nascondeva e io volevo portarlo alla luce. In un anno  capii e misi a fuoco che dovevo e desideravo diventare una pittrice.
E’ come se avessi avuto l’urgenza di un atto creativo che permettesse al mio cuore, ai miei sentimenti, alle mie emozioni, alle mie assenze, di poter metterlo in atto, per superare l’insoddisfazione che mi aveva relegato a guardare un mondo che vedevo insipido e piatto. Ho iniziato a dipingere sotto l’impulso spontaneo dei miei sentimenti e dell’attrazione che il Colore esercitava su di me. Dai miei lavori non mi sono mai aspettata altro che la soddisfazione che mi dava il fatto stesso di dipingere ed esprimere qullo che non avrei mai potuto esprimere in altro modo. Questa è il privilegio di noi artisti, poter celare o svelare il tormento che abbiamo dentro, spostarlo su di un prodigio, e lasciare che gli altri interpretino le nostre forme e i nostri colori come preferiscono, e noi spiarne  le reazioni: poter rimanere “attori” immobili e divertiti.
Col passare del tempo, tela dopo tela, sono riuscita a trovare una modalità espressiva personale, senza che nessun pregiudizio mi forzasse a farlo. I miei soggetti sono sempre stati le mie sensazioni e i miei stati d’animo, attratti da una bellezza che forse solo io vedo. Ho oggettivato tutto questo in tessuti, abiti, interni che accolgono, quanto di più sincero potessi fare per esprimere la mia spiccata femminilità.
Dipingo per me stessa, non riesco a fare diversamente. Sono gelosa delle mie creazioni.
I miei quadri sono ben dipinti, mai con negligenza, sempre con pazienza. La mia pittura porta in sé il messaggio del dolore o della tristezza, anche della gioia. Dipingere ha arricchito la mia vita e ha contribuito a sostenere la mia autostima, sempre lì lì per inciampare. Ho lasciato il mio lavoro, ero un’insegnante. Ho perso alcune cose della vita, comunque una vita buona. La pittura ha colmato il vuoto che a volte sentivo dentro e ha preso il posto di tutto ciò che non sono stata e avrei voluto essere

Il colore è la forma delle cose

Tratto dal NelFuturo.com
Il colore è la forma delle cose, il linguaggio della luce e delle tenebre. Hugo Von Hofmannsthal
I colori sono importanti. Veicolano codici, tabù, pregiudizi, possiedono significati nascosti che influenzano i nostri stati d’animo, i nostri comportamenti, il nostro linguaggio e il nostro immaginario. Non sono fermi nel tempo, la loro storia è movimentata, mutevole e lascia tracce persino nel nostro vocabolario quotidiano.
La religione, poi, ne ha assunto il controllo, come ha fatto con la vita privata. Anche la scienza ce li spiega, sorpassando la filosofia. E che dire della politica ? Tutto è governato da un codice che non è assoluto: sono loro, i colori, che ne detengono il segreto.
I colori sono lunatici, non si lasciano facilmente intrappolare in stereotipi. 
Ci sono i primari: il prediletto blu, l’orgoglioso rosso, il giallo che per lungo tempo è stato marchio di infamia. Poi ci sono i non-colori: il bianco virginale; il nero, austero ed elegante. Seguono i secondari: il viola, l’arancio ed il verde. Il grigio è appartato e sobrio. Le mezze tinte: rosa, albicocca, mora, lillà, che portano il nome di fiori e frutti.
Arriva il resto della servitù, nelle sue infinite sfumature: sabbia, avorio, polvere, fumo… I nostri gusti, le nostre avversioni, le nostre paure, le nostre fobie, i nostri desideri, i pensieri che non osiamo esprimere, ostentano un colore.  Viviamo in un mondo che è colorato, accessibile a tutti.
E’ un mondo molto più colorato di quello della società medioevale, dove il colore era riservato solo alle chiese, o alle feste legate alla liturgia religiosa. L’Europa, per esempio, è meno colorata degli altri continenti. E l’ambiente sociale ne influenza la scelta: in un quartiere popolare si vedranno molti colori, in un quartiere più agiato la palette dei colori sarà più sobria e riservata.
I colori sono carichi di codici antichi e di simboli, anche se oggi meno importanti che nel passato. Condizionano i nostri comportamenti e il nostro modo di pensare.  Cambiano e nel corso della storia assumono significati diversi.
Prendiamo per esempio il blu, la star dei colori.
Tutta la società occidentale dà più importanza al blu, cosa che non accade in Giappone, dove viene prediletto il rosso. Ma non è stato sempre così. Nell’antichità erano considerati colori veri solo il bianco, il rosso e il nero. Tranne nell’Egitto dei faraoni, dove era prezioso portafortuna per il passaggio nell’aldilà. Era molto difficile lavorarlo ed ottenerlo, per questo forse non ha avuto un ruolo importante. A Roma era il colore degli stranieri, barbari, quindi per una donna, avere gli occhi azzurri era una sventura, significava acquisire la nomea di donna dai facili costumi.
Insomma, ad eccezione dello zaffiro, la pietra preferita dalle genti della Bibbia, c’era poco spazio per il blu, anche nel Medioevo.
La chiesa cattolica lo ignora. Poi tutto cambia: siamo nel XII – XIII secolo. Cambiano le idee religiose, c’è un progresso tecnico nella fabbricazione dei colori, e all’improvviso il Dio cristiano si riappropria della luce, e quella luce diventa azzurra. I cieli, finalmente, non sono più neri, rossi, bianchi, o dorati, ma diventano azzurri.
Maria, la madre di Gesù, ne diventa la divulgatrice. Un colore fino ad allora considerato barbaro, diventa divino.
La società comincia a diversificarsi e così ecco la necessità di abilitare nuovi colori. Il rosso, il nero e il bianco non bastano più. Il colore, luce o materia? Si studierà, si dibatterà. Luce, quindi di origine divina; o materia, dunque vile e peccaminoso ? La prima asserzione prevale e l’intera società se ne approprierà: dalla Vergine al re di Francia e all’aristocrazia. Si studieranno e si produrranno blu magnifici. Durerà fino alla Riforma Protestante, che elencherà i colori degni e quelli indegni.  I quadri cattolici saranno coloratissimi (vedi Rubens), mentre quelli protestanti saranno sobri (vedi Rembrandt). 
Il blu si salverà, e manterrà il primato che ancora oggi conserva. Per concludere, il significato dei colori cambia con il tempo, ma molto lentamente. Tutti i colori, similmente al blu, hanno una loro storia e ci rivelano l’evoluzione della nostra mentalità. Questo del blu, è stato solo un esempio.
Viviamo immersi nel colore e i colori influiscono sulle nostre azioni e sugli stati emotivi. Sono una forma di energia che agisce su tutto il nostro essere, fisico, mentale, emozionale e spirituale. Ecco perché è importante che ognuno scelga accuratamente i colori con i quali si circonda. Ognuno è più o meno recettivo a livello sensoriale e psicologico, e la loro efficacia, pur variando da persona a persona, è riconosciuta. Si può, ad esempio, indossare il blu per il suo effetto calmante e rilassante, il giallo se si ha bisogno di energia, il verde per la sua azione equilibrante e di benessere generale…
La società sfrutta tutti i colori e ne fa degli opportunisti. Non esiste neppure più una morale del colore, serve come mezzo per raggiungere scopi più o meno dignitosi, sicuramente commerciali. Non conserva più la Bellezza e la ricerca di un significato profondo, di moralità buona e ambita, come abito del nostro essere spirito e corpo insieme.

L’arte rende visibile l’invisibile

Tratto dal NelFuturo.com

L’arte rende visibile l’invisibile. Paul Klee

A volte il linguaggio verbale appare limitato, mentre l’espressione artistica riesce a superare le nostre difese e le barriere sociali e morali. Ci permette di scrutare dentro lo scrigno che contiene l’anima.
Pensieri, sentimenti, esperienze, anche traumi, attraverso l’espressione artistica vengono alla luce;  facendo ricorso alla nostra fantasia riusciamo a vedere oltre la realtà contingente, aprendoci verso altri mondi possibili.
Provare a fare come Alice nel Paese delle Meraviglie, che attraverso la porticina dell’albero entra nella dimensione della tana del Bianconiglio, aggirando gli ostacoli e coraggiosamente entrare, saltando all’interno di quel magico mondo con intelligente incoscienza. 
Diventa una sorta di terapia, terapia dell’arte, che può avere varie forme: pittura, scultura, musica, teatro, danza…
In fondo basta un po’ di fantasia ed immaginazione, e attraverso l’arte verso la quale si è più predisposti, si può imparare a vivere meglio: l’arte diventa come una stella che brilla di luce tutta sua, che è bella proprio perché preziosa e unica.
Ognuno di noi ha delle potenzialità creative, si tratta di avere il coraggio di esprimerle e far diventare il nostro immaginario emotivo, in immaginario visibile e condivisibile. 
Non è difficile, è un atto che ci è connaturale.  
Pensate alla Preistoria: l’uomo ha sempre avuto la necessità di manifestare il proprio mondo interiore…
Attraverso il colore, e forme, i suoni, possiamo esprimere tutto quello che sentiamo e che non per tutti è facile esternare col linguaggio verbale.
L’arte ci permette un’espressione spontanea ed istintiva di noi stessi, che può non passare attraverso l’intelletto.
Nel fare arte ognuno di noi esprime la sua sensibilità estetica che va oltre l’espressione della bellezza puramente artistica ed estetica.
Creatività, fantasia, intuizione, percezioni sensoriali, contribuiranno a renderci capaci di esprimere quello che abbiamo in mente e ci condurranno ad esprimere, con tutto il nostro essere, la nostra esistenza : felice, infelice, gioiosa, tormentata…
Così pittura, musica, danza, teatro  diventano modi espressivi che favoriscono la conoscenza di sé stessi e delle proprie potenzialità. Impariamo ad esprimerci con fantasia, immaginazione e libertà.
In questo modo ci disponiamo ad un approccio alla vita migliore.
A questo proposito, vi ricordo come viene concepita la figura dell’artista nel Rinascimento.
Viene concepito come persona dotata di grande sensibilità e l’opera d’arte come strumento quasi terapeutico, che gli permette di esprimere una realtà fantastica che, se non espressa, l’avrebbe potuto portare alla follia. 
Visti i risultati del patrimonio artistico rinascimentale credo di poter essere convincente con la mia “speculazione” …

L’arte è una forma di terapia?

Tratto dal NelFuturo.com
Molto spesso osservando un’opera d’arte siamo influenzati dalla storia, dagli aneddoti, dalle didascalie. Non sfruttiamo tutto il potenziale di un dipinto, di una scultura o di un’opera di architettura. In questo modo perdiamo le emozioni. Certo, conoscere ad esempio le ragioni che hanno portato alla realizzazione di un’opera d’arte è importante, ma bisogna aggiungere a questo approccio anche un’altra maniera di guardare, indirizzata verso le emozioni.
Édouard Manet - Mazzo di Asparagi - 1880
Allora azzardo un sogno: una National Gallery, Slider Image 1un Louvre, un Prado non divisi per correnti artistiche, epoche storiche, ma per turbamenti interiori, emozioni. Ci sarà una galleria della sofferenza, una sala dell’amore, una della guerra, una della pietà… con opere a tema, per suscitare una reazione in chi le guarda. Questo perché l’arte diventi uno strumento della conoscenza di sé, e perché no, di speranza.
L’arte si trasforma in terapia, forma di educazione e di rispetto del bello, l’arte che restituisce il senso della bellezza, per renderla utile e quotidiana nelle nostre vite. L’arte che ci cambia in meglio, che ci aiuta a considerare la bruttezza come un danno: la bruttezza non ci deve lasciare indifferenti, dobbiamo escluderla e trasformarla, se possibile. Questo è anche il compito dell’arte. Su questo punto credo che tutti, anche gli storici dell’arte, non possono che essere d’accordo.
Riporto un esempio curioso, a proposito di arte come intervento terapeutico. Chissà cosa avrebbe pensato Edward Manet se avesse saputo che un giorno il suo quadro Mazzo di Asparagi, dipinto nel 1880, sarebbe stato usato per curare una relazione amorosa diventata monotona ed abitudinaria ! Contemplando un’opera d’arte possiamo fare qualcosa per curare il nostro spirito, il nostro malessere. Secondo quanto ho letto in un testo sulla terapia dell’arte, gli Asparagi di Manet ci sarebbero di aiuto per scoprire il bello anche in un oggetto banale presente in cucina, come gli asparagi, o le mele di Cezanne, per esempio. La routine, la quotidianità della cucina acquisterebbero più valore, nella semplicità del dipinto riconosceremo un capolavoro, la semplicità lo rende un capolavoro. In questo modo veniamo a negare l’arte, per l’arte. Appunto, perché l’arte ha uno scopo

Lotta fra Carnevale e Quaresima

Tratto dal NelFuturo.com  

Figure che possono apparire ridicole. Eccessi nei comportamenti.
Tutto questo si osserva sia nel Carnevale che nella Quaresima. Bruegel usa dettagli casalinghi, folclore e un senso dell’umorismo per illustrare la scena di una umanità folle.
Osservate l’uomo grasso a cavalcioni di una botte, sopra una slitta. I piedi sono fermi non in vere staffe, ma in due pentole da cucina, improvvisate. In testa ha una torta, a guisa di corona. Ha in pugno uno spiedo con infilzata della carne, è la sua arma. L’avversario è una figura altissima, a ben vedere sembra una donna, con in testa un alveare, come un copricapo ecclesiastico. Le api escono dall’alveare, antico simbolo della Chiesa cattolica, come i fedeli lasciano la chiesa sul lato destro del quadro.
Il Carnevale cristiano precede di due settimane il periodo della Quaresima. Letteralmente significa “addio alla carne” ed è un periodo di frizzi e lazzi, di festa in cui il popolo si da alla pazza gioia del cibo, del vino e del piacere, in dissolutezza. L’ultimo giorno di Carnevale, il martedì grasso, nei Paesi Bassi era giorno di orge e gozzoviglie , e questo è probabilmente il soggetto del dipinto. Durante la Quaresima, al contrario, si osserva un periodo di penitenza, non si mangia carne e ci si comporta in modo sobrio e devoto.
Bruegel rappresenta i due momenti, con opposti comportamenti. La dissolutezza e allegria del Carnevale sulla sinistra , e la società del periodo quaresimale sulla destra. La scena è un ritratto della società di quel tempo, della sua società.
Lotta fra Carnevale e Quaresima, Pieter Bruegel il Vecchio, 1559
Gli amici dell’uomo sulla botte sono vestiti in modo stravagante, indossano maschere grottesche e portano una tavola apparecchiata. C’è un maiale che si abbuffa con i resti gettati a terra, per denotare lo spreco. Davanti alla locanda ubriaconi e artisti di strada. Giocatori sono curvi sui dadi. Una vecchia cucina frittelle, lebbrosi e mendicanti danzano. Due coppie si divertono a rompere e lanciare vecchie pentole, forse riferimento alla perdita della verginità…  Uno zampognaro suona uno strumento di forma fallica. Ovunque si vedono segni di abbondanza, tutto è molto sgargiante e tutti si divertono a più non posso.
Al contrario, e per contrasto nel lato della Quaresima la Chiesa si prepara, pia ed austera. I fedeli escono dalla chiesa con la fronte segnata dalle ceneri, la cerimonia deve essere stata lunga, la gente si  portata da casa sedie e sgabelli. I dispensatori di elemosine sono sobri nei loro mantelli neri. Alcuni fedeli pregano accanto alla chiesa. Una vecchia prepara le frittelle.
Si potrebbe leggere il lato con raffigurato il Carnevale come un riferimento al luteranesimo, la Quaresima come una allegoria del cattolicesimo, rispecchiando i conflitti religiosi di quel tempo. Ma non abbiamo una rappresentazione della dicotomia  buono-cattivo.  Entrambe le parti manifestano atteggiamenti stravaganti, folli, e nessuno dei due appare più virtuoso dell’altro.
Curiosa la coppia proprio in mezzo al quadro,  è accompagnata in scena da uno sciocco vestito da buffone. E’ questo personaggio che forse ci può offrire una chiave di lettura: sebbene come quella coppia, anche noi partecipiamo agli eventi illustrati, impariamo a non imitare tali comportamenti, ma a riderne insieme al pittore.
Si potrebbe continuare per ore, ogni centimetro del dipinto reca un simbolo e induce la fantasia ad una danza curiosa e un pizzico folle.

A proposito di Van Gogh

Tratto da NelFuturo.com
Ho scoperto che in America esiste un gruppo di astronomi-detective che osservando le stelle, cercano di svelare i misteri contenuti nei capolavori pittorici.
La loro metodologia operativa va dall'analisi astronomica alla consultazione nelle biblioteche e negli archivi meteorologici, sino ai viaggi nei luoghi dove si sa o si suppone sia stata creata l'opera che stanno valutando. Cercano, in sostanza, di dare una risposta a quattro domande fondamentali: dove si trova la zonarappresentata?
Quando l'artista vi è stato ? (mese, giorno, anno, anche i minuti se possibile).
Van Gogh,
Sentiero di notte in Provenza o Strada con cipresso e stella
1890
In quale direzione stava guardando ? (nord, sud,est, o ovest).
Quali stelle o pianeti vi erano nel cielo in quella direzione, in quel momento, osservati da quel punto ?
Uno degli artisti più indagati è il maestro olandese, Van Gogh.
A proposito di Sentiero di notte in Provenza conosciuto anche come Strada con Cipresso e stella dipinto a Saint Remy, gli studiosi hanno identificato un raro raggruppamento di pianeti visibile nel cielo pomeridiano di quella regione francese nell'aprile del 1890.
L'astro brillante presente sulla tela e definito "stella della sera", il pianeta Venere, ha una possibile data di esecuzione, ossia il 20 aprile di quell'anno.
Per "Casa bianca di notte", di Auverse, hanno trovato la vera casa, che esiste e non è quella indicata dagli storici. Individuato addirittura la posizione in cui era rivolto Van Gogh mentre dipingeva. Sulla destra della casa si sono mostrate Castore e Polluce, le stesse stelle che alla metà di giugno del 1890 si trovavano vicine a Venere. E dalla consultazione dell'archivio meteorologico dell'osservatorio parigino è poi risultato che per parecchi giorni a partire dal 7 giugno 1890, il tempo era stato sempre piovoso, con un'unica pausa di sereno il 16 giugno.
E' quindi quasi certo che il quadro fu dipinto in quella data all'ora del tramonto, quando ad ovest brillava una Venere radiosa.
Per la "Luna che sorge", o i "Covoni", che tutti conosciamo, sono stati in grado di confermare che il disco arancione che compare sulla tela è la luna che sorge, e non il sole che si alza o che scende, come da alcuni ipotizzato. Sono perfino riusciti a stabilire il giorno, il 13 luglio 1889, e addirittura l'ora ed il minuto immortalati dall'artista.
Mi piace immaginare Van Gogh nel campo di grano, mentre cammina con passi pesanti, con il cavalletto sotto il braccio i colori nella tracolla stracciata, mentre osserva la luna che si leva, in un momento, chissà, forse di pace e di serenità, a pochi mesi dalla sua drammatica fine.

La memoria degli oggetti

Tratto da NelFuturo.com (nell'immagine: De Chirico - Mobili nella Valle, 1927)
Ricordare assomiglia al lavoro del giardiniere.
I ricordi sono come le piante: ce ne sono alcune che conviene eliminare per aiutare le altre a fiorire. E' una metafora vegetale per esporre con poetica chiarezza l'idea che la memoria debba essere selettiva.
Non dobbiamo cercare di ricordare tutto: talvolta conviene dimenticare il passato per vedere con più chiarezza il presente.
Troppi fardelli del passato pesano sulle spalle e impediscono una necessaria proiezione verso il futuro. Però, le piante senza radici non crescono, ecco allora che bisogna coltivare la memoria delle cose, non di tutte,ma selettivamente, alcune.  Di quelle che servono per rinsaldare i legami con il nostro passato e con le esperienze trascorse, che sono necessario nutrimento del nostro presente.
I ricordi tendono inevitabilmente a sbiadirsi, restano vividi quelli legati a degli oggetti particolari. A quelli che in un determinato tempo della nostra vita hanno accompagnato lo sgranarsi dei giorni, che ci sono stati accanto muti e fedeli: testimoni e compagni nei momenti di piacere e di riposo, efficienti durante il lavoro.
Su di loro abbiamo proiettato l'ombra della nostra personalità e li abbiamo trasformati in feticci. Siamo circondati da cose alle quali siamo legati da esperienze, bisogni, desideri. E sono queste che, mediante un processo di tipo associativo ed emotivo, ci tengono ancorati alle nostre memorie.
Meditando su questo argomento, sarebbe bello tenere in vita la memoria di persone illustri, mediante la riedizione di mobili, per esempio, che arredano gli studi di poeti, artisti, filosofi, fotografi... del passato.  Un’operazione di riedizione che resuscita gli arredi del passato, fondandosi sulla notorietà dell'utilizzatore.
A volte pezzi non straordinari, arredi comuni e anonimi, ma semplici e confortevoli che ben si addicevano alla vita dei poeti, come ad esempio Federico Garcia Lorca o Monet.  Il loro pregio non sarebbe nell'innovazione tecnologica e di design, ma nel vissuto a cui sarebbero associati.  Mobili poveri formalmente, ma ricchi sentimentalmente. Portarli in casa significherebbe introdurre nella nostra prosa quotidiana un pizzico di poesia.

La "natività" dolciaria italiana, nel Rinascimento.

Tratto da NelFuturo.com (nell'immagine: Jean Baptiste Simeon Chardin - La Brioche - 1763)
L'uso dei dolci fino all'inizio del Cinquecento era riservato quasi esclusivamente ai ricchi e comparivano sulla tavola all'inizio, durante e alla fine dei pranzi, per lo più seguiti da una malvasia ad alta gradazione.
Pensate che i dolci erano quelli che gli Arabi confezionavano ed esportavano fin dal XIII secolo, in Spagna, in Grecia, in Sicilia, in Campania, in Liguria, in Piemonte e altrove. Erano il marzapane, i dolci fatti con pasta di mandorle, sfogliatine farcite col miele, che ancora oggi compaiono nelle pasticcerie sia turche che greche. Tagliolini fritti e mielati, torrone tenero, canditi, confetture e marmellate di frutta, biscotti e canestrelli. Questi dolci erano appannaggio delle bocche dei signori. Anche i poveri riuscivano a cucinare dei dolciumi, semplici ma altrettanto buoni, tramandatici da generazioni. Certo, occhieggiavano e non erano la consuetudine.
Nel Rinascimento il pasticcere era colui che preparava i pasticci, i paté, e si occupava di dolci solo se rimaneva del tempo, al margine del suo lavoro. Questo fino alla fine del secolo. Poi nella cucina di un illustre cuoco, Bartolomeo Scappi, autore di un trattato sull'arte di cucinare, si cominciò a preparare cuochi addetti agli impasti: alle paste. Queste paste erano per preparare pasticci salati e impasti dolci. Ecco perché "paste" si chiamano ancora oggi i dolci confezionati nelle pasticcerie. Esistevano dunque due arti dolciarie nel Rinascimento, quella di chi produceva le cialde, e l'arte dei confettieri, dolciumi mediterranei e arabi. Furono gli Arabi ad inventare prodotti che si potevano facilmente trasportare e potevano durare nel tempo, proprio facendo largo uso di zucchero, che oltre a dolcificare, conservava.
Tomaso Garzoni, nel suo libro Piazza universale di tutte le professioni del mondo, del 1585, dedica ampio spazio ai cuochi e cita i produttori di dolci da forno, dei cialdai... I cuochi scrittori erano persone al servizio di signori, nobili, cardinali. Lavoravano nelle loro cucine e raccoglievano tutti i segreti: per questo il loro sapere risulta essere attendibile. Sappiamo che esistevano anche cuochi che rivendevano cibi cotti nelle loro botteghe o nelle taverne, non solo nelle case nobiliari e ricche. Così potevano arrivare anche sulle tavole dei meno abbienti. Il Natale, la Quaresima, la Pasqua, il battesimo, la festa del santo Patrono ed il carnevale sono avvenimenti che accadono durante l'anno e, per tradizione, vengono festeggiati con un dolce, preparato persino dalle monache, che giustifica un veniale peccato di gola.
Nei menù rinascimentali si rintracciano anche interessanti annotazioni su come si doveva preparare la tavola. Doveva essere ornata con rami, foglie e fiori, sulla tovaglia si spargevano mandorle, semi di finocchio e confetti. Sì, i confetti che ancora commemorano le nostre feste.
Insomma, poco burro, poco zucchero, farina e qualche mandorla, ed ecco pronti i democratici amaretti. Tutti ingredienti non costosi, considerando che lo zucchero si poteva sostituire con il miele. Alimento ancor più democratico perché chiunque lo poteva produrre, sfruttando gli alberi o i prati, a quei tempi ancora così profumati e abbondanti.

Caravaggio diventa Caravaggio

Caravaggio - David con la testa di Golia - 1607 ca.
Tratto da NelFuturo.com

Il Caravaggio scoppia come un fulmine in ciel sereno al suo arrivo a Roma.
Caravaggio diventa Caravaggio nel suo cammino verso la tragedia esistenziale.
Uccide un uomo, viene condannato a morte per decapitazione e scappa. Qui prende avvio la sua insistenza, quasi allucinante, su questo tema. Napoli, Sicilia, Malta. A Malta commette qualcosa di male di cui non sappiamo. La fuga riprende. Sicilia, Napoli. Poi l'imbarco per Port'Ercole, a nord di Roma. In quel luogo, in un giorno d'estate, la morte solitaria sulla spiaggia.
Una sorta di Tempesta di shakespeariana memoria ha lì il suo epilogo. Ma già era iniziato nel Davide e Golia, dipinto in cui Golia è autoritratto dell'artista non ancora trentanovenne; realizzato durante il suo esilio, in seguito all'omicidio commesso. Con quest'opera, inviata al Papa, sembra dire: " Se sua santità non mi concederà la grazia, fra poco sarò così ".
Caravaggio ha immaginato la sua testa staccata dal corpo, sublime ed agghiacciante, pittura estrema. Testimonia quasi scientificamente la morte fisica, con ancora un lume di attività cerebrale. Le pupille sono dilatate, non guardano, ma sono aperte sulla luce. Non vedono più. La bocca è spalancata in un urlo afono. Alcuni puntini di luce bianca sui denti marci, simbolo di una vita che è andata così così. La cosa straziante è che l'artista ha dipinto tutti questi particolari pensando a se stesso.
Le cronache dicono che il malinconico Davide raffiguri il Caravaggino. Potrebbe essere un ragazzo di vita legato al Caravaggio, o il Merisi stesso, in memoria della sua adolescenza. La vita com'era e la vita com'è. La salvezza e la dannazione. Lo sguardo del David osserva con dolore la testa decollata. Il sangue che gronda ancora fresco dal collo di Golia è abbondante nel rosso vermiglio, come se il pittore avesse voluto che fossimo testimoni del suo apprendimento. La decapitazione diventa metafora della perdita di vita dovuta all'atto pittorico. Il ritratto interrompe lo scorrere del tempo che causa la trasformazione del volto e ne congela l'espressività.
Paradossalmente, è proprio quando perde la mimica che il volto si fissa in una immagine della sua individualità. Il prezzo che si paga è che il volto diventa una maschera che non assomiglia più ad un essere vivente.

martedì 8 ottobre 2019

La poltrona

Tratto da NelFuturo.com 

O come vi sta comodo, l'uomo che vi si adagia.
Giovanni Pascoli

Chiacchierare, leggere, fare un sonnellino, guardare la televisione, e anche non fare nulla o sognare, lavorare a maglia, sorseggiare un tè o un caffè. Non potrei rinunciare alla Poltrona, elemento d'arredo dispensatrice di comfort. Sedersi in Poltrona è un piccolo rito, è l'unico arredo su cui ci è permesso oziare intelligentemente.
Pietro Longhi – Ritratto di famiglia - 1752

Bertrand Russel in un saggio "In favore dell'ozio", scrive: "... bisogna ammettere che il saggio uso dell'ozio è un prodotto della civiltà e dell'educazione". Questa affermazione contraddice la frase fatta, che fin dall'infanzia ci sentiamo ripetere, che l'ozio è il padre di tutti i vizi. Liberiamocene, se non altro perché è piuttosto improbabile che si possa fare cultura correndo, sciando o, che so, stirando. E' più credibile che ci si dedichi all'arricchimento spirituale sprofondati in poltrona, cosa che, agli intransigenti e ai poveri di spirito può essere confusa con l'ozio.
Si deve riconoscere che c'è ozio e ozio. Esiste quello inutile, chiamato accidia, ed esiste quello intelligente e produttivo. Io opterei per il secondo: non vedo valide alternative allo stare comodamente seduti in Poltrona. C'è chi si siede e basta, c'è chi si siede pregustando i messaggi che la Poltrona può trasmettere. Per esempio, ci sollecita l'immaginazione e l'inventiva, non solo il rilassamento fisico. Ci sono cose che riescono meglio seduti e rilassati in Poltrona. In questo periodo post Natale, lo stare sprofondati diventa piacevolissimo: meglio vicino ad un fuoco, o con delle candele accese, leggendo o ascoltando musica, conversando con gli amici, con a portata di mano una fumante tisana.
Ho constatato che la Poltrona sviluppa il suo fascino nelle ore che vanno dal tramonto in poi; con l'attenuarsi della luce si compie la magia fatta di tante piccole adorabili sensazioni. Sera e Poltrona, oscurità e tregua. E' un invito a conciliare la posizione eretta e quella sdraiata, una posizione intermedia che allevia le fatiche quotidiane prima, e graduale invito al riposo della notte poi.
Se intelligentemente usata, è difficile che la Poltrona ci porti verso cattivi pensieri, irritazione o nervosismo. Nei romanzi il nervoso si agita sulla sedia, difficilmente in una comoda Poltrona, anche perché sedersi sul suo fondo è cosa piacevole e facile, alzarsi invece presuppone un certo sforzo dell'inquieto protagonista. La Poltrona vuole che chi la usa sia calmo e contento. Sedervisi concilia il sonno, e si accoppia con le cose buone della vita. Insomma, è un mobile dal buon carattere. Non sprizzano forse di allegria e simpatia i personaggi ritratti nei quadri di Pietro Longhi? Intenti in placide conversazioni, sorbendo tè o cioccolata? Celebrano la settecentesca joie de vivre, seduti in Poltrona. E gli Impressionisti? Dipingono poltroncine in giunco o vimini su terrazze piene di vento e di luce. I Macchiaioli sotto pergolati delle case di campagna.
E che dire degli scrittori? Alberto Savinio, per citarne uno, nei suoi racconti ci descrive affascinanti Poltrone, allusive, antropomorfe, curiose, perché rappresentano i personaggi che vi si sedettero.
C'è la Poltrona "...altera e stretta alla vita come una dama col busto, ai piedi della quale, simile a un bambino ai piedi della madre, sta lo sgabellino dello zio".



Il sublime



Tratto da NelFuturo.com

Il sublime.

"Tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è in certo senso terribile, o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in modo analogo al terrore, è una fonte del sublime, è ciò che produce la più forte emozione che l'animo sia capace di sentire".

William Turner – Pescatori in mare - 1825
Questo scriveva nel suo saggio sull'origine delle nostre idee del sublime e del bello, Edmund Burke, inglese-irlandese. Era alla natura che si riferiva, incommensurabile nella sua grandiosità e vastità, temibile e potente, capace di annientare l'uomo. In antitesi con il bello, fondato sulla proporzione e sulla gradevole armonia. Il sublime scaturiva anche dall'assistere a distanza, e quindi con tranquillità, a una scena terrificante operata dalla natura, come ad esempio l'eruzione di un vulcano. La sublimità, come nozione estetica, fu al centro di dibattiti soprattutto nel XVIII secolo: dal concetto di emozione profonda, sbigottimento e terrore, si giunse anche ad adottare il termine per indicare l'efficacia della rappresentazione di un'opera d'arte. Scrisse Jacques-Louis David: " non è solo con l'incantare gli occhi che le grandi opere d'arte raggiungono il loro fine; lo raggiungono col penetrare nell'animo, con l'operare sullo spirito un'impressione profonda vicina alla realtà. L'artista deve perciò studiare tutte le molle del cuore umano".
Il concetto di sublime entra profondamente nelle passioni e nella mentalità romantica, insieme al rapporto fra anima e natura, tra pittura ed esperienza interiore, ereditati dal Settecento, e alla convinzione che l'arte poteva essere veicolo di sensazioni sublimi.
L'antitesi fra bello e sublime viene a cessare con uno dei più grandi paesaggisti dell'Ottocento, Caspar David Friedrich. Si riduce ad un unico concetto: " Devi tendere al sublime e al magnifico se vuoi giungere al bello". 
Per questo artista il sublime non scaturisce da una natura ostile ed affascinante, dai cataclismi che trascinano nella loro furia uomini e cose, ma nell'intima compenetrazione dell'uomo con la natura, dalla capacità di misurarsi con la sua grandezza infinita, avendo coscienza della limitatezza dell' individuo. Rappresenta così la vastità degli spazi, il senso dell'infinito con lo sguardo dell'uomo all'orizzonte: questo significava per Friedrich avvertire il sublime, ciò che è assolutamente grande, direbbe Immanuel Kant. Kant portava l'esempio di fenomeni naturali come gli uragani, le tempeste nell'oceano, che lasciano dietro di sé devastazioni che rendono l'uomo insignificante e impotente davanti a tali forze. In Friedrich invece il sublime raramente si identifica con spettacoli disastrosi, bensì sovrappone il senso del divino che l'individuo può percepire ascoltando il proprio spirito. Nei suoi paesaggi il pittore ne penetra la vastità, rilevandone la silenziosa  sacralità.
L'immagine del cataclisma fu espressione dominante del sublime in Francia ed in Inghilterra. In Italia solo in campo letterario il tema emerge con Leopardi.
William Turner, nel Regno Unito,  rappresentò i vertici più affascinanti della pittura del sublime. Paurose tempeste che travolgono tutto ciò che incontrano sono tema ricorrente in lui.
In Francia, Girodet ci offre straordinari esempi di sublime con la narrazione di naufragi attinti da drammatici fatti di cronaca.
Proprio in questi giorni esce un film che ci racconta Turner e, forse, ci avvicina al sublime.
Nell'iimagine: Caspar David Friedrich - Paesaggio serale con due uomini - 1830

Norman Rockwell, gigante dell'illustrazione

Coming
Tratto da NelFuturo.com

Lo spunto è la mostra che si chiude l'otto di febbraio a Roma, a Palazzo Sciarra. Con rammarico, l'ho persa. Ma ho ricevuto in regalo il catalogo, davvero ben fatto.
Nell'epoca della illustrazione divulgativa Rockwell esprime la fierezza, il dolore, la delicata ironia, l'amore profondo per la tolleranza e il rispetto dei valori, laici o religiosi che siano.
Era un pittore di smisurata grandezza e tecnica finissima. La sua arte era messa a disposizione di di un mezzo di comunicazione: un giornale, anzi, più precisamente, alla copertina di una rivista popolare, il Post. Creò ben 321 copertine in 47 anni.
Murder in Mississipi, 1965
Vi lavorò dal 1916 al 1963, raggiungendo la tiratura di un milione di copie l'anno. Rispettare le scadenze e farsi venire nuove idee, erano il flagello dell'illustratore. aveva solo una prima pagina, e non poteva sbagliare. Per anni raffigurò la famiglia americana felice, sempre con un gatto o un cane, ragazzini sorridenti, babbi natale a dicembre, tacchini nel ringraziamento. Insomma, tutti buoni. La copertina narrava una storia, e quella storia era a lieto fine. Diceva di non riuscire a dipingere i cattivi. Su quella rivista democratica, collaboravano scrittori come Jack London, Agatha Christie, Francis scott Fitzgerald, Ray Bradbuty, John Steinbeck, William Faulkner. Veniva letta da tutta la famiglia americana. E' un mondo innocente, che ancora precede la "caduta", in cui gli uomini sono amici della natura e della propria natura: il male è l'antagonista, come nelle favole. E mentre se ne parla è già sconfitto.
 Col tempo le copertine cambiano, devono stare al passo con i tempi. Fatti di cronaca e mutamenti sociali prendono il posto della famiglia americana ideale. nella parte finale della sua carriera, la sua produzione è molto più impegnata e "scura": l'ultimo suo dipinto, un omicidio nel sud degli Stati Uniti, è immersa in un buio infernale, rischiarato solo dal bianco delle camicie e dal rosso del sangue. Niente a che vedere con i cagnolini che saltano o le bambine che mangiano il gelato.
Triple self-portrait 1960
 Rockwell dipingeva ad olio, dopo aver eseguito numerosi disegni seguendo le fotografie scattate. Quindi la pagina veniva stampata partendo da una vera e propria opera d'arte. Pensava all'effetto che avrebbe fatto la copertina nel chiosco degli edicolanti. Non era solo un illustratore, era in grado di dipingere come gli antichi maestri. Questo sembra dire con il suo autoritratto al cavalletto, dove sono appesi i ritratti di Durer, Picasso, Rembrandt e Van Gogh.

Dulcis in fundo

Tratto da NelFuturo.com

"Le belle arti sono cinque e cioè: la pittura, la scultura, la musica, la poesia e l'architettura, che ha come suo ramo principale la pasticceria".
Marie Antoine Carême
James Tissot – Troppo presto - 1873
Dulcis in fundo

I ricettari scritti a mano sono quaderni occulti, con ricette curiose e segrete. Dolci di casa che rievocano antichi profumi di mele e di burro. Quante Maria, Concetta, Caterina, Pina, si sono cimentate come cuoche, balie, tuttofare, tate e governanti, zie di età indefinibile o più frequentemente in là con gli anni.
"Faceva bene ogni cosa, fosse in salute o no, senza rumore e con l'aria di far niente", scriveva Proust in uno dei suoi romanzi, "sotto le gale di un'abbagliante cuffia, rigida e fragile come se fosse stata dizucchero filato".
Cugine, cognate, zie, padrone di casa, zitelle, suore di clausura, donne, perchè con la preparazione dei dolci siamo nel regno della femminilità. Donne relegate, chiuse fra le pareti domestiche, obbligate a ripeteresempre gli stessi gesti, ingnare di possibili altri destini. Con mani leggere ed esperte, pazienti.
Mescola e sbatti, sciogli, impasta, decora e inforna. Il profumo di burro che arriva dalle cucine è irresistibile e si diffonde come una brezza avvolgente. Piatti di porcellana con centrini ricamati attendono pazienti.
E' buono? La prima domanda importante. Perchè per i dolci ci vuole il pubblico, che siano i bambini, che siano i maschi di casa. Puoi cucinare una pastasciutta se sei solo, ma per un dolce ci vuole un'occasione, un ospite, un bambino, un innamorato. Per avere la soddisfazione di esibirsi, il piacere di offrire, l'alibi per cadere in tentazione.
Quella domanda, ti piace ?, chiede l'approvazione, anzi, la esige. Il sorriso e l'annuire premiano la fatica. Fra poco il dolce sarà finito, significherà che è stato gradito.
Prendine ancora, l'utimo pezzetto, sbriciolato, che sorride pacioso sul centrino.
E' così buono !
Dulcis in fundo, vi servo il Il soufflè di suor Venezia.
[...]
"Cossate gh'hee scritt chì?" Marietta s'era fermata con gli occhi birci sul foglietto, " Due uova intere e due tuorli" lesse Silvia "un bicchierino di Marsala, un etto e mezzo di zucchero..."
Quella mattinaSilvia e Marietta erano in anticipo nel percorrere il tratto da Viale Monforte a Via Bellotti, dove al numero 10 sorgeva la scuola delle reverende suore benedettine. La donna intendeva farsi dare la ricetta del soufflè alle mandorle di suor Venezia, la portinaia del convento. In cambio, come correva usa fra loro, le portava certa sue dosi per il budino allo zibibbo.
"Avanti".
"Un chili e mezzo di zibibbo".
"Un chilo e mezz? Cossa gh' hee scritt giò, pastissona? Un etto e mezz. Corregg subitt".
Silvia si fermò. Reggendo la cartella su un ginocchio e appoggiandovi sopra un foglietto corresse: "un etto e mezzo di zibibbo".
Le scolare cominciavano ad affluire verso il portone della scuola; accompagnate le più piccole, con ostentate cartelle e canestri, sole le più grandi, con pochi libri celati sotto i mantelli. Qualcuna scendeva da una carrozza privata d'un padre importante, atteso da civici impegni...
[...]
Luigi Santucci, Il velocifero.
Oppure il cucchiaio in un tramonto.
"La principale funzione di Louise e della mamma era di nutrirmi... Approfittavo con passione del privilegio dell'infanzia, per la quale la bellezza, il lussi, la felicità sono cose che si mangiano... Rimanevo affascinata dalla frutta candita, dal cangiante dei marzapani, dalla screziata fioritura dei bonbons; verde, rosso, arancione, viola; agognavo i colori non meno dei piaceri che promettevano. Avevo spesso l'occasione di tramutare l'ammirazione in godimento. La mamma pestava nel mortaio dellemandorle tostate, mescolava quella grigia poltiglia granulosa con crema gialla; il rosa dei bonbons digradava in sfumature squisite; affondavo il mio cucchiaio in un tramonto..."
Simone de Beauvoir, Memorie di una ragazza perbene.

Dipinti di moda, non di moda

James Tissot – Troppo presto - 1873
Tratto da NelFuturo.com

Essere se stessi ed essere del proprio tempo, diceva Manet.
Per James Tissot (1836-1902) artista francese, la moda era l'aspetto leggero della dimensione tragica della modernità. Tracce di questo pensiero sono riconoscibili nella scelta dei temi dei suoi dipinti: la città, le donne, i luoghi dove si abita e si vive, il teatro della città che racchiude il mondo.
Concentrava l'attenzione sulle persone, sulle loro abitudini sociali. Nelle sue tele le figure cercano lo sguardo dell'osservatore nello spazio che popolano, soprattutto attraverso lo splendore degli abiti. Nell'abito e nella moda nascente, Tissot trova la metafora più immediata per tradurre il proprio tempo.
Era nato a Nantes, da madre modista e padre mercante di moda; cresce fra abiti, stoffe e accessori: una miniera di sensazioni visive e tattili. Nel 1857 si trasferisce a Parigi per studiare arte: viene catapultato nella effervescente capitale della moda. Nel 1858 arriva a Parigi il sarto inglese Charles Frederick Worth, e con lui nasce la moda degli stilisti. Lui è il primo sarto che inizierà a firmare i propri capi come fossero opere d'arte. Inaugura la moda come evento mutevole, che si rinnova di anno in anno, forma di comunicazione moderna.
Worth non sarà più il sarto, umile e anonimo, che si recherà a casa delle signore a esaudire le loro richieste, ma sarà il padrone della maison che attende la visita di queste donne ricche. Gli stili e le fogge cambieranno di continuo anche grazie alle innovazioni tecnologiche, come la macchina da cucire. Seguire una moda significava identificare e rendere visibile il proprio stato sociale e la propria personalità. Il successo della moda raggiunge l'apice verso la fine dell'Ottocento, periodo in cui si colloca il nostro artista.
Il pittore è consapevole del forte influsso del fenomeno moda, tanto che non può fare a meno di documentarlo su tela, dove gli abiti teatralizzano il corpo e giocano con l'apparenza.
Nell'opera Troppo presto, 1873, Tissot mette in scena un momento critico, prima del ballo.
Alcuni invitati sono visibilmente imbarazzati per essere arrivati troppo in anticipo: una infrazione al codice della ricca borghesia che aveva la pretesa di escludere dal proprio mondo chi non aveva una adeguata estrazione sociale. Per il pittore l'analisi dell'abbigliamento permette di comprendere la morale e l'estetica contemporanee: l'abito diventa espressione degli ideali dell'individuo, e suo compito è rappresentarli.
Il dipinto sembra lezioso, ma in realtà racconta, e la resa pittorica dei tessuti è talmente fedele che sembra di udire il fruscio delle sete... Il vestito esce dal ruolo di elemento decorativo del quadro, diventa vero protagonista capace di illustrarci usi e costumi dell'epoca, ma anche di rivelarci emozioni del soggetto dipinto: diventa metafora della modernità.
La moda è per eccellenza l'effimero, ed è legata al mutamento delle cose che sta a cuore a Tissot. Egli vede in essa l'incarnazione dello spirito del suo tempo, legato al mutamento delle cose.
E se non muta, perisce.

La tela di jeans

Maestro della tela di jeans
Madre mendicante con due bambini, 1660-1680
Tratto da NelFuturo.com

Molti non sanno che la stoffa di jeans, nata a Genova, era già presente sul mercato europeo sin dalla fine del Medioevo. La struttura del tessuto, originariamente fatta di fibre di cotone e di lana o lino, col passare degli anni evolve fino a diventare un fustagno molto resistente e leggero. Il termine Blue Jeans venne coniato solo nel 1850, da Levi Strauss , che trasformò un capo povero, utilizzato in passato dai marinai liguri, nel capo di moda più venduto nel mondo.
Un artista lombardo del '600, dipinse una tela dalle notevoli dimensioni : 152 X 117 cm) in cui una giovane madre, con una gamba di legno, si appoggia occupando il centro della scena, ad una stampella, per reggersiin piedi. Ai lati, posti simmetricamente, sono due bambini vestiti di stracci, confortati da un braciere. La particolarità del dipinto sta nella gonna blu, realizzata in tela di Genova, il modernissimo blue jeans.

Ciò pare una incongruenza ai nostri occhi, simile a quella degli orologi posti ai polsi degli antichi romani nel film di Cabiria. Ma in questo caso la gonna in jeans è perfettamente compatibile con l'epoca e isoggetti del dipinto. Il jeans era una tela poverissima , che non è stata oggetto con il passare del tempo, di grossi mutamenti. Il fatto di trovarla indossata ai poveri del '600 è solo una conferma delle origine popolari di questo tessuto, ma soprattutto all'attenzione al vero da parte di numerodi artisti di quell'epoca (esempio più noto, il Caravaggio).
Non è noto l'autore di questa opera, posta probabilmente prima del Ceruti, per le soluzioni pittoriche. L'incarnato del volto della madre, il riflesso della luce, le rozze pieghe del grembiule. I colori utilizzati, freddi bruni, blu e rosso. Siamo insomma, nel filone della pittura di genere e realtà che caratterizzò il Seicento e il primo Settecento.
L'interpretazione psicologica della scena è dominata dalla nobiltà dei poveri, ben consci della loro condizione, carichi di forte emotività. Resta un problema: chi era il pittore sconosciuto?
Rimane che chiamarlo Maestro della tela di Jeans, erchè altri dipinti simili stilisticamente, presentano grembiuli relizzati in una trama che altro non è che la tela blu genovese.

Una storia e una carriola

Tratto da NelFuturo.com
Camille Pissarro (1830 - 1903) – La carriola - 1881
 Viviamo in un mondo che pare stia andando all'inferno con la carriola, ho letto tempo fa. Fatti, informazione, internet, voci, sano realismo insano. La fine si avvicina?
Allora, vi racconto una storia, vera.
Si era nell'agosto del 1944. I nodi ferroviari in Italia erano bombardati dagli aerei americani, per impedire i rifornimenti e la fuga ai Tedeschi, soprattutto sugli Appenninini, via aperta verso il Nord. Nell'intervallo fra le le incursioni aeree e i lanci di bombe, due giovani partigiani, andarono in una chiesa vicina a sposarsi. Così, come si potrebbe attraversare la strada di corsa, per evitare l'acquazzone.
Nel frattempo i tedeschi compivano massacri (vedi Marzabotto) che avrebbero fatto vergognare le orde di terroristi islamici in Siria, in Iraq o in Africa.
Non era il caso, in quelle condizioni, di preoccuparsi di futuro, di lavoro, di sicurezza, di musica o arte.
Chiamiamo lei Chiara e lui Paolo. Lei insegnava pianoforte, lui Latino e Greco, entrambi senza contratto e senza garanzie, in una scuola privata. Andavano al lavoro tutti i giorni in bicicletta, dalla campagna alla città, dalla città alla campagna, coprendo più di trenta chilometri. Pedalavano lungo strade pattugliate da caccia inglesi e americani, pullulanti di repubblichini, gente esasperata dall'odio li circondava. Spaventati da partigiani nervosamente troppo pronti a sparare.
A volte Paolo trasportava messaggi o armi per i partigiani, rischiando una brutta fine se fosse stato fermato. Quale poteva essere il futuro di quei ragazzi? Ammazzati, torturati, spediti in Germania. Eppure quegli incoscienti che si amavano, nonostante la guerra, misero al mondo un figlio, sicuramente non in ospedale, senza ecografia nè esami, nè ostetrica.
La loro unione, il matrimonio e il desiderio di un figlio, erano stati più importanti della paura, della miseria, dell'angoscia di un futuro che poteva essere non più lungo del tragitto dalla campagna alla città.
Quei ragazzi ci insegnano che nonostante le bombe, i tedeschi, gli americani sopra la testa, la fame, la paura, la delazione, nella vita c'è sempre Vita: quella certezza che ci portiamo dentro, soprattutto in quei momenti in cui il mondo pare andare alla deriva... anzi, all' inferno in carriola.

Quando tutto sarà finito, l’arte continuerà ad esistere

Anselm Kiefer (1945-Germania)
Aus dunklen Fichten flog ins blau der Aar, (2009)

Tratto da NelFuturo.com

Anselm Kiefer è una delle figure più importanti del movimento artistico Neo-espressionista. Nasce in Germania nel 1945, durante le ultime fasi della Seconda Guerra mondiale. La consapevolezza di essere venuto al mondo in un momento così drammatico segnerà profondamente il suo percorso umano ed artistico. I temi ricorrenti saranno: la storia delle religioni, le rovine dell’Occidente, la natura disperata e ferita, la necessità di un popolo, quello tedesco, di fare i conti con la propria storia, consapevole che l’identità non si costruisce attraverso la rimozione della memoria.
Kiefer è poco conosciuto dal pubblico italiano, eppure rappresenta uno degli ultimi grandi artisti contemporanei. È capace di coniugare la concettualità dell’arte con una grande qualità tecnica.
Cresciuto tra le macerie della guerra, tenta di rompere il silenzio sui crimini di quel passato prossimo, che tanto ha pesato sul popolo tedesco. La sua opera attrae perché è un tentativo di riuscire a “dire” a raffigurare le ombre del secolo scorso. L’arte dovrebbe essere un tentativo di comporre un senso all’interno della Storia vista come luogo il cui fondo è abissale, spesso torbido. Dice l’artista “La storia è argilla che si plasma con le mani. Il mio lavoro è continuare i miti: loro esistono e io li continuo. Ciascuno dà forma alla sua storia e ha la sua interpretazione”. Sembra una risposta alla celebre affermazione di Adorno, dell’impossibilità di fare arte dopo Auschwitz. O al poeta rumena Paul Celan che aveva invece rivendicato la necessità di cantare l’orrore dell’Olocausto.
I suoi dipinti si presentano come veri e propri libri in cui a tela si sostituisce alla pagina. Sacro e divino sono nella tessitura della tela. Testo e tessitura che raccontano con l’impasto dei colori cupi, gli orrori e gli errori compiuti dall’uomo nel corso della storia.
Un’arte politica, se si vuole, ma non banale e consumistica, come risulta incerta arte concettuale contemporanea che si illude di indurre cambiamenti sociali sotto la patina di arte impegnata. In realtà arte di qualità infima, prima di immaginario artistico, arte solo per il mercato e il museo. Negli ultimi anni l’Europa ha prodotto solo qualche artista di valore, per virtù tecnica, complessità e forza di immaginazione. Per esempio Anselm Kiefer, che non evita la bellezza delle sue opere d’arte. Perché la bellezza non appartiene solo all’armonia, pensando a Morandi, ma anche al negativo, al caos con cui è intessuta l’esistenza, presente nelle ferite e nei luoghi di morte.
«Humbaba» (2009)
 Nei suoi grandi dipinti non ci sono mai figure umane. L’umanità si è inabissata nei luoghi in cui ha agito il male. Rimangono solo frammenti straziati, luoghi storici, brandelli di paesaggi e natura. Le tele sono enormi, la sua tecnica dell’Impasto, rende il mondo rappresentato denso e asfissiante. Sembra quasi ribollire con dolore, un dolore lirico della vita, gridato coi colori acrilici, la terra e la cenere. Un canto delle macerie, un invito a ripartire da quella bellezza, “Perché il bello non è che il tremendo al suo inizio” cantato da Rilke.

Man and nature

George Healey (Boston, 1813 - Chicago, 1894)  
Portrait of George Perking Marsh

Tratto da NelFuturo.com
“Considerate come riparo, le foreste impediscono che i raggi del Sole giungano a terra, e conseguentemente impediscono anche un aumento di temperatura che cagionerebbe un maggior grado di evaporazione (…). La temperatura media di una terra disboscata sembra essere nei Tropici circa un grado centigrado superiore a quella delle foreste (…). Vi sono regioni ove l’azione delle cause poste in atto dall’uomo ha ridotto la faccia della Terra a un grado di desolazione quasi tanto grande quanto quella della Luna”.
Dire di più, nel 1864, non era possibile. Questo scriveva Gorge Perkins Marsh, ambasciatore americano innamorato dell’Italia, dove visse dal 1861 al 1882, in Man and Nature, con allarme di estrema attualità sugli squilibri ambientali. Una analisi dettagliata e pignola, cogliendo la necessità di affrontare la questione ecologica su cui poggia la sicurezza collettiva. Individuò una delle due cause del cambiamento climatico: la deforestazione. Non poteva a quei tempi vedere l’altro elemento: l’uso dei combustibili fossili che costituisce la fonte principale dei gas serra.
Si continua oggi a discutere, a distanza di un secolo e mezzo, alla necessità di una migliore gestione del territorio e delle sue risorse.
È stato Marsh, che non abbandonò più l’Italia, fino alla morte, a cominciare la stesura della prima legge forestale. Una lezione la sua, che oggi, a giudicare dallo stato di abbandono di buona parte del territorio, appare lontana.
Tempo fa Trump ha sostenuto che il cambiamento climatico “sarebbe una stronzata” inventata dai Cinesi per danneggiare l’industria americana.  In questi giorni, dal prato della Casa Bianca ha annunciato il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo di Parigi sul clima, definendolo negativo per gli stati Uniti. Quegli Stati Uniti che sono al secondo posto per la responsabilità di emissioni di gas serra.

domenica 6 ottobre 2019

Wünderkammer

Wünderkammer

di Valerio Crugnola
 
Ritagliare, comporre, incollare. Era l'esercizio scolastico che più mi pesava, in prima elementare, quando la maestra ci obbligava a cercare delle immagini il cui nome doveva iniziare con una certa lettera dell'alfabeto.
La mano maldestra e la mente impaziente mi erano così d'impaccio da rendermi odioso quel gioco. Soccorrevole, all'insaputa di tutti, mia madre mi veniva in aiuto: io sceglievo, e lei ritagliava, incollava e disponeva la composizione per me. Ma quel trucco non mi dava soddisfazione: senza manualità, la fantasia si inaridiva, e l'ordinato rapporto tra figure e lettere aveva qualcosa di confuso, di vuoto, persino di goffo. Mi limitavo a spalmare la coccoina, per via del suo profumo. Non essendo partecipe del gioco, essendone anzi escluso in partenza, quelle pagine di quaderno mi risultavano estranee, e la lode della maestra non mi dava gioia.
Ripesco questo ricordo casualmente, avendo ammirato la nuova ricerca di Emanuela Silvestri: un'artista che ritaglia, compone, incolla, proprio come voleva la mia poco simpatica maestra, ma che aggiunge a questa abilità manuale qualcosa che, fino a questo «incontro», sapevo possibile senza però poter immaginare come quel «qualcosa» fosse possibile.
Quel qualcosa ha a che fare con una «creazione di mondi»: con quell'assoluto irrealismo dell'arte che spesso è troppo coperto, dissimulato dai riferimenti naturalistici o che altrimenti è lasciato troppo scoperto, quasi spiattellato in faccia allo spettatore, dall'astrazione formale e dall'esclusivo contenuto concettuale di un'opera.
Chi crea mondi mediante le arti (inclusa la letteratura) offre a chi li scopre uno stupore immediato: uno stato di spaesamento e di incanto. Lo sguardo, la fantasia ne ricevono una piccola o grande eccitazione. La mente, spesso soffocata dagli oneri della quotidianità e impoverita dalla routine, ne ricava un senso di respiro, come ci accade in cima ad un monte, in un'ampia radura che si apre in un bosco o spersi in un punto indefinito di un deserto. Le arti creano mondi che hanno in sé e che trasmettono fuori di sé questo senso del respiro.
I dipinti che, idealmente alloggiati ed esibiti in un solo spazio, formano tutti insieme la Wünderkammer di Emanuela Silvestri, aprono a un mondo che appare più libero, o meno subordinato, rispetto alle logiche convenzionali dell'immaginario. L'immaginario non è mai invenzione pura: ha dentro e dietro di sé una storia che lascia dei sedimenti (strutture, criteri ideativi, linguaggi iconologici, forme descrittive, archetipi...). Le Wünderkammern del passato, croce e delizia di collezionisti tanto raffinati quanto maniacali, disponevano di questo surplus di libertà.
Il loro punto di forza era l'inatteso: mirabilia mai prima osservate, o mai osservate così. La visione d'insieme generava meraviglia per il carattere inconsueto e talora bizzarro dell'ambiente, mentre la visione particolare di una vetrina o di un singolo oggetto suscitava stupore, per la sorprendente particolarità del contenuto e soprattutto degli accostamenti. Ogni cosa, nelle Wünderkammern, era immoto: l'ordine, la raccolta e la descrizione puntuale fissavano ciascun oggetto in una intemporalità metafisica, che il collezionista aveva intenzionalmente e ostinatamente cercato. Il visitatore entrava in uno spazio e in un tempo sospeso e lì, spaesato, galleggiava ad ammirare. Le collezioni, soprattutto del passato, lasciavano al visitatore anche un senso di gravità, sovraffollate come erano dall'ansia di aggiungere e poi aggiungere ancora, dall'horror vacui, dalla bulimia dell'ideatore. Dopo un po' la sazietà da eccesso attenuava tanto la sorpresa dell'inatteso quanto il piacere dello straniamento.
Bene ha fatto Emanuela Silvestri ad evocare questa tradizione, sgravandola però dall'appesantimento che le era connaturato. Le sue sono vere e proprie composizioni e collezioni di mondi.
Composizione, dal latino cum-ponere, significa porre insieme elementi eterogenei in modo che convivano in una mutua relazione. La composizione media tra identità e differenza. Una volta ritagliata e incollata sulla tela, una pipa di Magritte non solo «non è una pipa», ma non è nemmeno più la pipa di Magritte, è piuttosto una copia dell'imitazione magrittiana della pipa originaria. Ma i nostri occhi non vanno troppo per il sottile: benché la riproduzione sia stata decontestualizzata attraverso la sottrazione del suo sfondo, l'osservatore decifra proprio «quella pipa lì», «quella di Magritte». Ma, associata ad un ritratto rinascimentale ugualmente decontestualizzato, la pipa appena riconosciuta come quella di Magritte, diviene altro da sé: non più una copia riconoscibile e una semplice «citazione» di un ormai scontato gusto postmoderno, bensì una pura figurazione ricontestualizzata nella relazione con altre figurazioni, le quali vengono abilmente a sovrapporsi ad un precedente dipinto dell'autrice, coprendolo fin quasi a renderlo irriconoscibile se non ai frequentatori più intimi della sua precedente ricerca.
L'insieme così composto lascia percepire una stupefacente e ironica collezione. Il termine, dal latino cum-legere, evoca una molteplicità di significati. Ne evidenzio solo i due più consonanti con l'intuizione e la tecnica di Emanuela Silvestri: scegliere insieme gli oggetti della collezione, nel loro potenziale combinarsi; consentire all'osservatore prima di cogliere olisticamente, nel suo intero, la peculiare collezione, come avviene nella lettura, attraverso la sintesi delle diverse componenti di una parola e dei significati di un insieme di parole, e soltanto poi di ricontestualizzare nella memoria iconologica, collettiva e personale, i singoli elementi lì composti.
La Wünderkammer che ne esce è dominata dal gioco e dall'ironia. Giochi associativi, giochi anamorfici, giochi evocativi. Ironia nel sottrarre l'arte alla sua aura dotta proprio mentre si tributa a quell'aura un insolito rispetto. Ironia nei rimandi ambivalenti che la composizione genera. Ironia nel citare e mescolare i reperti dei più ammirati maestri, in uno spazio che appare più sferico che prospettico, quasi che ogni oggetto ivi collocato fosse, in assenza di piani, in un punto inafferrabile e sfuggente. Ironia nei confronti dello spirito postmoderno, del kitsch e del calligrafismo pop che dominano il nostro tempo. Ironia anche nel citare se stessa, con reperti propri. Gioco e ironia segnano così una presa di distanza, e insieme testimoniano un affetto. Proprio come in quel Museo dell'Innocenza realizzato (oltre che scritto) da Oran Pamuk, che di Emanuela è uno dei grandi amori letterari, e qui è divenuto il più grande degli ispiratori, anche se l'elemento autobiografico, spesso casuale, è qui decisamente nascosto. Anzitutto, presumo, all'autrice, che sembra lavorare ad ogni sua Wünderkammer non già in un normale studio pittorico, ma in una sua speciale e singolare Wünderzimmer, o meglio in un corridoio dei sogni, di cui lei sola possiede la chiave ma non la cifra.
Gioco, ironia e vagheggiamenti fantastici sono eleganti, mai rumorosi, anzi sottovoce e in punta di piedi.
Il risultato è un'opera di immediata gradevolezza, che muove al sorriso, alla lievità e, appunto, al respiro sprigionato da stupefacenti cartoline inviateci da un mondo inesplorato, ma privo per noi di mappe e di approdi se non quelli dei nostri occhi.

2 novembre 2014

Nuova opera di Emanuela Silvestri

Zafferano Zafferano - 2019